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“Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi"

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Nella veglia pasquale alla preparazione del cero abbiamo pregato: “Per mezzo delle sue sante piaghe gloriose, ci protegga e ci custodisca il Cristo Signore”. I segni della sofferenza sono anche nel corpo glorioso di Cristo, e portano Tommaso alla fede. Il Vangelo ascoltato è ambientato alla prima domenica e alla prima serie delle domeniche: Gesù si è manifestato ai discepoli “il primo giorno della settimana” e poi “otto giorni dopo” (Gv 20,19.26), dando forma così a “la domenica” come “giorno del Signore”.

Gli “otto giorni” sono un tempo che la liturgia considera come un’unica festa: concetti e ritmi di tempo che non ci appartengono più, ma nei quali dobbiamo tornare per testimoniare la nostra appartenenza a Cristo e alla Chiesa. La cornice del racconto evangelico di questa Santa Liturgia è la paura: i discepoli erano rintanati nel cenacolo e stavano con le porte chiuse per paura dei giudei (cfr Gv 20,19).

Il messaggio è la pace: è la prima parola di Gesù. La consegna è portare: la pace al mondo e il mondo alla Pace: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi" (Gv 20,21). L’effetto è la gioia: “E i discepoli gioirono al vedere il Signore” (Gv 20,20). La resurrezione di Gesù ci indica la nostra missione: vincere la paura, godere la pace, portarla ai fratelli, trasmettere gioia. “Pace a voi!” (Gv 20,21).

Non sono parole marginali, neanche un augurio come quello che ci facciamo a Messa e che non tocca le incoerenze reali: è una consegna, un compito affidato alla Chiesa di ieri e di oggi, quindi a tutti noi. Nell’ultima Cena, Gesù aveva detto: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Parole che ripetiamo in ogni Messa; ma aveva aggiunto subito dopo: “Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14,27).

Prima di tutto si tratta della pace di Dio, quella serenità e gioia profonda che il credente sperimenta nell’avere il Signore vicino, nel sentirsi “amico di Dio”: conosciuto, guardato, amato da Lui. Un amico invisibile ma reale, che ti avvolge con il Suo amore, in un rapporto intimo di affinità, come quello che unisce genitori e figli. Un amico che non tradisce, al quale ti puoi rivolgere in qualunque momento, sicuro di avere con Lui un legame particolare di affetto. Un amico che ha fatto la gioia di milioni di persone, nelle solitudini dei monasteri o nelle lotte della vita, nei momenti bui e belli dell’esistenza. Un amico che è vicino anche a chi non sa di averlo.

La pace di Gesù è illuminata e sostenuta dalla fede; pace con noi stessi e con gli altri che non è “costretta” nei confini e nei limiti dell’umano. Badate bene: la pace di cui parla Gesù non è soltanto quella spirituale e interiore. Il progetto del Maestro non è destinato a dilettazioni individuali o domenicali per piccoli gruppi: è diretto al mondo, ha un valore universale.

Perciò il credente deve diventare costruttore di pace intorno a sè, nei rapporti interpersonali, familiari, sociali, internazionali, cosmici; deve diventare, cioè, costruttore di strutture che producono pace, perché tutto nel mondo parla di competizione, di violenza, di guerra ed anche, se qualche volta si parla di pace, si tratta di una pace garantita dalla logica della forza, delle armi, del denaro e della paura.

Non è questa la pace di Gesù, questa è la pace che assomiglia terribilmente alla quiete dei cimiteri, che ha prodotto nei secoli valanghe di cadaveri, e ci ha condotto alla soglia della catastrofe collettiva, col suo quoziente di aggressività distruttiva, pronta a realizzarsi, con la selva dei missili atomici puntati e con le ingiustizie elevate a sistema oppressivo, generatore d’impoverimento e di sofferenza.

La pace che Gesù promette, e che noi dobbiamo perseguire, è una pace sovversiva, perché basata sull’amore, anzi perché è equivalente all’amore. Non c’è nulla di più sovversivo che inserire la pace-amore di Gesù in una società violenta come la nostra. Un cristianesimo che non sa dire questa parola in modo credibile è vecchio, per non dire moribondo. Un cristiano che è pacifico nel senso privato della propria tranquillità, che vuole essere lasciato in pace, che s’illude di poter essere solo spettatore della storia, non è un uomo di pace, perché vive nell’irresponsabilità nei confronti del mondo.

Così pure un cristiano che utilizza la parola ‘pace’ per camuffare logiche e scelte di guerra, tradisce il Vangelo. Gesù, ha mandato i discepoli nel mondo, non a compiere riti religiosi, a far novene e processioni, ma a realizzare la pace. Questo era è e rimane il grande compito della Chiesa: mio e tuo.
 

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