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I borghi del medio vastese: Palmoli e la sua storia antica

Viaggio alla scoperta dei paesi del Medio -Vastese

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Con trignonet faremo un viaggio storico-culturale tra tutti i comuni del Medio Vastese. Ognuno di essi rappresenta un piccolo centro dove tutti (o quasi)  si conoscono e tutto è a dimensione d’uomo. L’identità della persona è associata al soprannome della famiglia di origine. Spesso i tempi sono molto più dilatati e c’è ancora tempo per prendersi un caffè o fare una partita a carte con un amico. Nella maggior parte dei casi, possono vantare una storia abbastanza remota in quanto una volta le popolazioni si stanziavano verso l’interno per evitare attacchi dal mare.

A volte non serve andare chissà dove per cercare delle bellezze inesplorate. Tante meraviglie sono a portata di mano e basta solo saper guardare con gli occhi del cuore per percepire delle meraviglie inaspettate. 

Ecco la quarta tappa di questo viaggio, Palmoli. Questo articolo è scritto da Medea Tilli, una palmolese innamorata del suo paese. (Maria Napolitano)

Palmoli sorge nell’antico Abruzzo Citeriore, a 727 m sul livello del mare, sul Monteverde, presso la sponda destra del fiume Treste. Il suo nome originario Palmularum/Palmula/Palmori lo caratterizza come “luogo delle palme” , per la presenza di uliveti silvestri sul colle.                                  

L’attuale dialetto riproduce, sincopandole, le forme di questi antichi nomi in Pàlml” e “Pàlmr”. Presumibilmente il primo agglomerato urbano di una certa rilevanza, tra VI e VIII sec. d.C. , si trovava presso il fiume Treste ( in antico “Triste” per le devastazioni in tempo di piena ), in località San Grimaldo, con omonima chiesa edificata dai Benedettini, dopo concessione di un feudo ecclesiastico da famiglia Longobarda ( dopo la loro conversione al Cristianesimo i Longobardi favorirono, infatti, la costruzione di abbazie e luoghi di culto). 

Eppure, data da sempre la posizione geografica strategica tra Treste e Trigno, non si esclude la formazione molto anteriore di villaggi (i vici , in latino) nei pressi delle ville romane e dei tratturi per la transumanza, nelle attuali contrade periferiche del paese, come in Contrada Mondola, più vicina al fiume Trigno e al Molise o in Contrada Melania e Santo Ianni (da quest’ultima area sono state rinvenute steli funerarie di III-IV sec. a.C.). Non a caso, proprio presso San Grimaldo, si svolgeva la  Fìrje d’Sand Rumuèll, ossia la fiera dei bovini, che lungo i secoli divenne la Fiera del Carmine presso l’omonimo Santuario ( oggi tale fiera, la cosiddetta ‘fìrje’ nòsc’tr’ si svolge in forma diversa -e ridotta -ogni anno il 26 agosto), a testimonianza del funzionale antico ‘snodo commerciale’ del posto.

Tra X e XII sec d.C., dietro le scorrerie degli Ungari, dei Saraceni e dei Normanni, per paura di saccheggi e invasioni, i villaggi scomparvero in parte e ci si arroccò sul Monteverde ( quello che i palmolesi chiamano ‘ngim a lu mònd ).                                                                                                           

Lu Turrujòn (il Torrione), nella forma originaria di torre di avvistamento, a strapiombo sul Bosco della Selva, sorse nel 1095 , voluto da Pandulfo Di Sangro dei Conti di Monteodorisio , un ramo dei Conti dei Marsi imparentato con Carlo Magno. È questo il segno più eloquente dell’ingresso di Palmoli nella rete difensiva dei 17 castelli della Contea di Monteodorisio e dell’influenza dei nobili Di Sangro che, insieme ai Caracciolo (il ramo famigliare Caracciolo-Pisquizij) di San Buono, costituiranno prova dell’influenza spagnola nel territorio fino a tutto il ‘500  e ‘600. Anche la famiglia dei Grandinato di Fresa, di nobile ascendenza longobarda compare nella storia di Palmoli: la prima documentazione scritta in cui troviamo il nome PALMULAM è datato 1115, inerente la donazione del Castrum Doliolae all’abate  Giovanni di S. Angelo in Cornacchiano da parte di Ugone di Grandinato. Palmoli figura presente nell’estensione dei possedimenti, per diventare poi ufficialmente feudo di 48 fuochi (famiglie) di Filippo di Grandinato nel 1176, dietro donazione del Conte di Loreto Giozzelino.

Il 1267 , come attestano i più tardi documenti settecenteschi della Famiglia Severino, la Palmoli guelfa difese strenuamente l’Abate di S. Angelo in Cornacchiano in territorio di Fresagrandinaria, ‘debellando’ i ribelli cittadini di Dogliola i quali rivendicavano i propri territori. I “Palmolini” riconsegnarono il Castellum Doliolae all’abate e come ricompensa ottennero lo ‘jus di pascere, acquare, legnare anche alberi fruttiferi’ in territorio di Dogliola. Tale diritto rimase in vigore fino al 1494, per poi essere ulteriormente rivendicato sotto il Barone Domenico Severino nel 1712.

Nel ‘300 viene costruito il Castello vero e proprio, che vede intorno ad una torre cilindrica centrale a merli guelfi una scarpa dodecagonale. Vengono costruite anche le stanze dei signori e della servitù, le scuderie, il fondaco, la recinzione di mura ed un probabile fossato con ponte levatoio e l’arco e la torretta del Rivellino, o meglio conosciuta a tutt’oggi come Arco del Ribellino (l’ arc di lu Rubbullùin ) su Porta da Capo.  

Il rivellino o revellino ( dal latino revallum/revallare = rifortificare) costituì proprio a partire dal XIV sec. una sorte di forte difensivo a sé , a forma quadrata o a mezzaluna, posto dinanzi agli ingressi principali e sul fossato, atto a permettere la chiusura delle porte o il sollevamento del ponte levatoio; una piccola rocca indipendente che occorreva prendere prima del cuore del Castello.

I Palmolesi hanno legato ad esso un fatto a metà tra cronaca e leggenda: la fucilazione di un uomo “ribellatosi” al Marchese per lo ‘jus primae noctis’ . Il Ribellino è rimasto prepotentemente nella memoria come vittima del fatto di sangue e il ‘nome architettonico’ originale ha giocato favorevolmente nell’assimilarvi il potente concetto/tabù della ‘ribellione al sopruso’ e della ‘punizione’ come deterrente per i sovversori della legge.              

A  ricordo del ribelle vi è, sotto l’arco, una croce restaurata che ha sostituito la vecchia croce lignea del 1741.  Il fossato oggi è Corso Umberto I , che nel dialetto locale rimane ancora ‘ammònd p’lu fòss’ o ‘ abbàp lu fòss’ , a seconda che lo si percorra, rispettivamente, in salita o in discesa.                                                                                        

Il feudo di Palmoli appartenne ufficialmente ai Di Sangro-Caracciolo tra il 1320 e il 1586 circa ed ebbe una propria Costituzione in 42 capitoli nel 1401 (Capituli per li homini et Università di la terra di Palmori).Tra il 1584 e il 1586 è la FAMIGLIA SEVERINO-LONGO di NAPOLI che entra in possesso di Palmori e gradualmente anche dei suffeudi di Peschioli, Castelleo e Montefreddo. Inizierà dunque con la nobile discendenza dei Marchesi di Gagliati di origini francesi ( l’influenza della stessa lingua francese permane fortemente nel dialetto locale) un lungo periodo di quasi quattro secoli, caratterizzato da lustro e prestigio.

Risale al 1595 l’istituzione di una Camera Riservata di 144 membri, che risiede e giudica in loco, con evidente preminenza giuridico-legislativa nel territorio. Nel ‘600 essi ampliarono presso il Castello il Palazzo Baronale, oggi sede degli Uffici Comunali e del Museo dell’Arte Contadina (istituito nel 1978 per opera e interessamento di P. Beniamino Maurizio, SF. e oggi a lui intitolato quale MUBEN – Museo Padre Beniamino ).                                                                                                                                                   

Il forte legame con la fede e i luoghi di culto, come espressione a latere del potere nobiliare, si espresse nella  costruzione della Cappella Marchesale di S.Carlo nel 1772 e ancor prima con la sepoltura del primo barone Camillo Severino Juniore nel 1662 nella Ecclesia Sanctae Mariae Carmeli (fu sposo di Artemisia Longo e uno dei nove figli di Don Domenico Severino e Donna Anna Maria Miroballo al potere tra il 1733 e il 1751).   

Dal ‘600 ebbero sotto il proprio patronato anche la Chiesa S. Maria delle Grazie, in origine Chiesa Matrice Santa Maria Maggiore terrae Palmularum , risalente al ‘500 (sebbene una data graffita – A.D. 1314- del campanile lasci presumere una ricostruzione su una ancor precedente chiesa del ‘300). Ne fecero abbattere l’antico edificio per ricostruirvi dalle fondamenta la Chiesa così come appare ora. La lapide dedicatoria voluta dai Marchesi, presente sul portone d’ingresso, riporta la data del 1780. La costruzione fu il frutto di un grande sforzo “corale” in termini economici, a cui contribuirono anche le rendite dei luoghi pii. Tali rendite potevano verosimilmente provenire anche dalla Chiesa del Carmine (già Santa Maria di Loreto), la grancia della Chiesa Madre, ossia una sorta di fattoria ( dal francese grange:granaio) con terreni coltivati annessi al Santuario, in genere abitati da religiosi sotto la responsabilità di un priore, come era dell’uso cistercense (Ora et labora...) sin dal XII sec. .

Il Convento di S. Maria del Monte Carmelo, ampliamento della  precedente struttura ( la leggenda vuole infatti che il santuario nasca dedicato alla Vergine del Carmelo dopo il rientro dalla Terra Santa di alcuni Crociati ) si configurò convento francescano dei Frati Minori nel 1583. Chiuso nel 1860, ritornò alla sua dimensione “conventuale” nel 1937 con la Congregazione dei Figli della Sacra Famiglia, fondata dal Beato Giuseppe Manyanet (1833-1901), allorchè profughi della Guerra Civile Spagnola (1936-1939), i religiosi aprirono il seminario “Collegio Sacra Famiglia”nel 1938.

In piena Restaurazione Borbonica la Famiglia Gagliati conservò il suo indiscusso prestigio: nel 1820 il Marchese di Palmoli fu inviato dal Re di Napoli a Monaco di Baviera quale ministro plenipotenziario e l’archivio comunale ne conserva il diario scritto a mano. E sempre per interessamento dei Severino accadde un altro evento cruciale nella storia palmolese: l’arrivo del Corpo Santo di S. Valentino prete e martire nel 1824 , conservato nell’omonima Cappella, inaugurata nel 1904 nella Chiesa Parrocchiale ‘S. Maria delle Grazie’. Le cronache ne riferiscono l’arrivo da Roma a Napoli via mare e da Napoli a Palmoli su un carro trainato da buoi, e la devozione popolare il miracoloso evento della ‘palma’d’ulivo bandito dal Santo, quale segno della scelta di Palmoli come dimora, sulla via di Mafalda ( dove pure vi è la Fonte di San Valentino a ricordo del passaggio). I Marchesi di Gagliati conclusero  il loro secolare dominio in Palmoli nel 1938, con la consegna del Palazzo Marchesale al Comune, spegnendosi “senza eredi”.

Col plebiscito del 26 dicembre 1860 nel Regno di Napoli, Palmoli passa al Regno d’Italia con 381 voti a favore su 411 votanti dei 744 elettori. Il cammino verso il XX secolo, come per il resto d’Italia, non è facile. Tra 1870 e 1900 il paese subisce un forte fenomeno migratorio verso Stati Uniti e Argentina: liberarsi dai ‘signori’ nel centro e nel sud d’Italia coincide troppo spesso con una libertà senza pane. L’impoverimento porta molti, a malincuore, a lasciare la propria terra.       37 saranno i caduti della Grande Guerra del 1915-1918 (25 cadaveri di Vittorio Veneto), a ricordo dei quali ci sarà il primo Monumento ai Caduti e saranno piantati, in ugual numero, dei tigli davanti al Cimitero. Nel 1922 il Palazzo Marchesale è sede dell’Asilo Infantile San Valentino.

Altri 29 uomini perdono la vita nella Seconda Guerra Mondiale.  Dopo l’arrivo degli Alleati e la liberazione, nel penoso e lento processo di ricostruzione, a cavallo tra il 1947 e il 1950, anche il Castello abbandona il suo glorioso passato medievale. La vecchia torre di avvistamento viene demolita  e scompare l’antica “neviera”, in corrispondenza dell’attuale fontanella della Villa Comunale.

L’arrivo dell’acqua a Palmoli nel 1949 e l’inaugurazione dell’acquedotto nel 1950 segnano una sorta di confine tra un passato di miseria, dominazioni e guerre e la speranza di un futuro più prospero, come risuonano i versi della canzone celebrativa dell’evento, Li funduanèll (“…tra pòch l’emma fà na città ‘nghi li matunuèll! Mò tinèm li funduanèll, zi putèm aricrijà!”)

Il boom economico degli anni ’60 comporterà un ulteriore spopolamento verso le città del Nord o verso Germania e Svizzera, ma il cammino verso la modernità continua. Presto i figli degli operai potranno spingere in avanti il vessillo di un riscatto sociale. Il lavoro nelle fabbriche porterà ricchezza e progresso. Poter far studiare i figli sarà l’orgoglio di molti operai, nati contadini. Molti costruiranno case per i  propri figli per evitar loro quell’indigenza che ha segnato le storie dei nonni e dei genitori …

La storia del passato più recente, da fine ‘900 ai nostri giorni, è forse ancora tutta da assimilare  e interiorizzare. I luoghi e le vie del paese sono e rimarranno per sempre il centro di avvenimenti che, si spera, anche le prossime generazioni avranno cura di preservare e commemorare.

(Fonte: P.Beniamino Maurizio S.F. “Palmoli mia”, ed. Il Nuovo 1999)

 

 

 

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