IL CACCAVONE E ALTRI GRANI ANTICHI DEL VASTESE

Rubrica storico-antropologica di Pierino Giangiacomo

Pierino Giangiacomo
28/10/2023
Attualità
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 I nostri contadini coltivarono queste terre strappandole alle pietre, ai boschi, ai rovi, vitalbe  e stracciabrache, alle  marruche e frane, ai pantani e cannicci;  dissodarono quelle  in prossimità dei corsi d’acqua e lungo le erte collinari, anche in luoghi dirupati difficili da raggiungere pure a piedi. Era il tempo della cosiddetta agricoltura di sussistenza. Coltivarono quel che poterono con mezzi manuali rudimentali e con la forza degli animali come a dire buoi, vacche, muli, asini. Producevano riso, grano, avena, orzo, farro, mais, legumi, miglio, ortaggi, frutteti, vigneti, oliveti. 

  Non mi ricordo la segale che dava pane nero e che nutriva i popoli nordici. I locali servi della terra avevano una volontà ferrea di resistere ma, nonostante dure fatiche, fecero una vita piena di stenti e sofferenze.     Un tempo non c’erano le pensioni, né la cassa integrazione e neanche il reddito di cittadinanza. Se nel corso dell’annata fosse avvenuto un incendio, una gelata, una grandinata, o avesse spirato per più giorni il gagliardo scirocco essiccatore o non veniva la benefica pioggia, erano dolori, era la fame certa e ci si arrangiava come si poteva.  Per campare, si arrivò a mangiare anche cose inimmaginabili. La concimazione chimica del terreno era quasi sconosciuta perché il concime si doveva comprare e non si disponeva di denaro. Per cui, possibilmente, la concimazione si faceva col letame animale e, talvolta, con la cenere di legno.

 Il grano, a preferenza, si seminava a solco con l’aratro monomanico detto  a chiodo e non a spaglio per facilitare la sarchiatura e la diserbatura a mano. Gruppi di donne ad inizio primavera si spandevano nei seminati e spesso intonavano canti corali in dialetto inneggianti alla vita. La mietitura manuale, i covoni, le aie in terra battuta in posti ariosi, le biche o barconi fatti con covoni, a forma di casetta  con due spioventi, la trescatura con le bestie, la ventilatura all’alba, la crivellatura, il lavaggio dei chicchi da portare al molino, la stesura al sole su teli grezzi di stoppa erano lavori che stancavano ma, allo stesso tempo, gratificavano le persone. 

   Successivamente nei campi mietuti arrivavano le spigolatrici e nessuna spiga andava perduta perché il grano era fonte di vita. Era tutto un mondo incantato che è rimasto, ahimè, soltanto nella memoria di noi anziani ma che ci è caro. Ed è per questo che in questi anni si organizzano delle significative rievocazioni: a Casalanguida, a Roccaspinalveti, a Cupello, a Montenero, a Palata, a Carovilli e altrove dove si possono rivedere lavori, modi, attrezzi e macchine di un tempo come i mitici trattori a testa calda Landini dalle le ruote di ferro coi rampini; i battiti cadenzati e monotoni dei loro motori monocilindrici; le trebbie meccaniche  delle più svariate marche come Orsi, Saima, Breda, Bubba, Rossini, Suzzara tutte di color arancione. E poi i gran crivelli, le mète di paglia sciolta, il rumore caratteristico delle macchine, la massa dei lavoranti tra cui il tommolaro e i pagliaroli, la gran polvere, i trùffuli di vino e i rigatoni al ragù di castrato o di papera. A Jelsi, in provincia di Campobasso, ogni 26 luglio si organizza la festa del grano in onore di sant’Anna con il paese tutto pavesato di spighe, un museo con oggetti costruiti con chicchi di grano e con la sfilata delle traglie  ricolme di covoni tirate da animali. Immagini ricreate ma alquanto suggestive che attirano molti visitatori.

Circa i cereali coltivati nei nostri ambienti la mia memoria di ultraottantenne mi riporta qualche spiraglio. Così, utilizzando anche ricerche svolte qua e là, ho potuto realizzare questo elementare, superficiale e non esaustivo studio:

   1)- Spelta (Triticum spelta) o Granfarro. Originario dell’Asia sud occidentale (cosiddetta Mezzaluna fertile, come a dire Egitto, Mesopotamia, Assiria, Frigia) e consumato presumibilmente da più migliaia di anni. Una prima menzione in questa zona lo si trova nei Capituli concessi da Giesmundo di Sangro feudatario di Palmoli nel 1401. Le cariossidi necessitavano di brillatura; perché il seme nudo non si otteneva con la sola trebbiatura essendo uno dei frumenti cosiddetti ‘vestiti’: i chicchi non si separavano dalle brattee per cui necessitavano di una altra lavorazione.     Era un cereale a taglia alta usato a Fresa fino agli anni ’70 del ‘900, in minuscoli appezzamenti e non più per l’alimentazione umana ma, mescolato con altri prodotti (orzo, favetta, mais, ceci, avena, miglio), portato a macinare al molino per utilizzarlo come pastone per i maiali o i vitelli. I suoi lunghi steli secchi si  riunivano in manipoli ed utilizzati  con le canne per la copertura dei pagliai (la cosiddetta camicia) oppure per le grandi biche di paglia a due spioventi per proteggerle dalle intemperie; non di forma circolare attorno ad un palo tipo stiglio come si usava altrove, per es. a Casalanguida.

  2)- Faraone o Farrone (Triticum dicoccum), La coltivazione del farro è molto antica e sembra risalire all’epoca preistorica. Fu consumato dagli antichi popoli italici e, dunque, anche dai legionari romani.  Per le sue eccezionali virtù e alta digeribilità, per la sua ricchezza di fibre e di sali minerali è ritenuto un toccasana. Qui da noi fu coltivato fino ai primi del ‘900 come risulta dai conti consuntivi della Congrega di Carità. Per molti decenni la coltivazione del farro a Fresa non ebbe luogo. Fu poi ripresa per qualche tempo da parte di alcuni agricoltori per essere poi di nuovo abbandonata.

  3)- Caccavone, un grano semiduro anch’esso molto antico. La sua origine è sconosciuta. Si dice che avesse il chicco un pochino più grandicello del normale con una farina giallina ma di non elevata qualità culinaria. Era abbastanza rustico e resistente ai geli e alle ruggini e si adattava bene anche ai terreni poveri e leggeri di collina. Le reste delle grosse spighe erano un po’ scure e talvolta aggrovigliate tanto da sembrare baffi.  Era un grano a stelo alto, incurvato, che poteva arrivare anche a 190 centimetri e ciò era ritenuto un vantaggio perché le erbe infestanti venivano naturalmente soffocate. Questa varietà fu ritenuta di scarsa importanza o di classificazione incerta dal ricercatore Emanuele de Cellis nella sua opera “I grani antichi” del 1927.  Un tempo si coltivava molto nei paesi del vastese e anche qua e là nel Molise dove, pare, sia stata di recente riscoperta. Qui da noi si coltivò fin verso il 1950 come ricorda ancora un anziano. 

  Caccavone è il vecchio nome del paesino molisano di Poggio Sannita ma con tutt’altro significato: caccavo (dal latino caccabus che un tempo indicava un paiolo di rame. Il termine esiste anche nel foggiano e sta ad indicare una persona di grossa statura ma impacciata, un lumacone. Ad Atessa caccavùne sono le borse sotto gli occhi.

  4)- Saragolla (specie Triticum turanicum), detto anche Duro di Puglia. La denominazione potrebbe derivare dal bulgaro sarga (giallo) e da golyo (seme). Grano duro di antica origine (si parla del IV secolo d.C. anch’esso della Mezzaluna fertile). Varietà derivata dall’antico grano Khorasan. È caratterizzata dagli steli incurvati e dalle lunghe spighe con reste rossastre. La saragolla dà una farina di color giallino e, conseguentemente, una pasta ed un pane come se vi fossero frammiste delle uova. Qui da noi veniva chiamata la foggiana e coltivata da alcune famiglie  fino al 1970 nei terreni argillosi di Giullerìa. Oggi non più. Ma altrove è attualmente molto rivalutata in Abruzzo, Molise, Puglia e Basilicata per le sue preziose qualità nutrizionali.

  5)- Carosella (da noi la Casirèlle). Grano tenero rustico e precoce dalla spiga di medie dimensioni, priva di ariste. La taglia era tra i 106 e 115 cm. Si dice che tale varietà  fosse adatta per i terreni collinari dell’Italia centro meridionale. Si mieteva prima degli altri grani perché erano molto attaccata dai passeri e perché i chicchi cascavano facilmente nel terreno per effetto del vento. La carosella aveva una farina candida ed era ottima per la panificazione. 

  6)- Marzuòlo o marzatico o timilìa. A Fresa venne chiamato Americano. Grano duro a ciclo breve. Si seminava a febbraio, specialmente quando le intemperie avevano infierito nell’autunno impedendo le semine; si mieteva a luglio e da noi era molto diffuso. Aveva un seme piccolo, la farina un po’ scuretta da cui si otteneva una pasta saporita ed un pane scuro. L’ultimo appezzamento  di marzuolo da me avvistato fu a Contrada Olmi di Roccaspinalveti, sui 750 metri, un quindicennio fa. Ignoro se tale coltivazione esiste ancora nei terreni montani d’Abruzzo. Ma sicuramente in Sicilia, in Calabria e nel Salento.

  7)- Solina. Altra antica varietà di grano coltivata anche dalle nostre parti si chiamava solina. Io ho sentito questa notizia dalle persone più anziane di me. Si trattava di un grano tenero, dalla farina proteica, adatta alla panificazione, alla pasta di casa e alle pizze. Un grano dal fusto alto 100/135 cm e dal lungo ciclo adatto per le zone montane e collinari ben resistente ai rigori invernali. Le più antiche testimonianze riguardanti la solina risalgono agli inizi del XVI secolo. I chicchi erano un po’ grandini ma la resa era piuttosto bassa: circa 16/17 quintali per soma. Ricordo che la soma era una misura locale e qui  corrispondeva a circa 81 are odierne.

  8)-Senatore Cappelli. Grano duro dalle turgide spighe con reste nere. A Fresa veniva chiamato “la cappelle” (la varietà Cappelli). Nel 1915 il ricercatore Nazareno Strimpelli, dal grano nordafricano Jenah rhetifah per selezione genealogica ottenne una semente di grano duro cui diede nome Senatore Cappelli in onore del marchese Raffaele Cappelli, un illustre abruzzese (1848+1921), promotore della riforma agraria. Tale grano dal portamento robusto fu qui largamente coltivato per molti decenni ed usato sia per il pane che per la pasta. La resa media era di circa 8/9 quintali per quintale di seme;  nel 1958, eccezionalmente, fu di 15 q.li in terreni argillosi non concimati chimicamente ma coltivati alternativamente con erba sulla/grano/fave/grano. 

  Si sa che l’erba sulla, come le fave, arricchiscono il terreno di azoto. Tale varietà era a taglia piuttosto alta e, quindi, molto apprezzata per la produzione della paglia necessaria per gli animali. (Come era apprezzata la razza suina di colore nero che procurava uno strato di lardo fuori dal comune necessario per l’alimentazione). Ma l’altezza dello stelo aveva un handicap:  era soggetto all’ allettamento ad opera del vento o della pioggia, che, conseguentemente,  causava una minore resa.  Negli anni ’70 con la tecnica dell’irraggiamento con raggi gamma (cobalto 60), raggi X o neutroni veloci, la genetica di tale grano (come quella di tanti altri duri) è stata modificata da un fusto alto ad uno molto più basso, una buona resistenza alle malattie, con una migliore risposta ai fertilizzanti chimici e, dunque, di una resa superiore. La nuova varietà venne chiamata “Creso” (brevettato nel 1975) da cui poi  per incrocio derivarono molte altre. Sono venuti alla luce tanti tipi di grano con vari appellativi: PR42, San Carlo, Antalis, Phara, Platone ed altri.  La ricerca di nuove varietà più redditizie è in continua evoluzione; gli studi di laboratorio cercano di mettere in luce nuovi sistemi di coltura con  semi adatti ad ogni tipo di terreno nella ricerca di risolvere il problema di sempre: il nutrimento della popolazione mondiale che cresce e si espande in continuazione.

Libri consultati: 1)- Piccolo almanacco dei grani antichi, a cura di V. Tarparelli, Regione Umbria, 2018 (da web); 2)- Grano e civiltà rurale nel Molise, di M. Tanno, Campobasso, 2006).

                                                                                                                                             

                                                                                              

 

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