“Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).

Commento al vangelo

Don Michele Carlucci
01/11/2015
Attualità
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“Noi oggi contempliamo questo mistero: i morti per Cristo, con Cristo e in Cristo sono con lui viventi e, poiché noi siamo membra del corpo di Cristo ed essi membra gloriose del corpo glorioso del Signore, Noi siamo in comunione gli uni con gli altri, chiesa pellegrinante con chiesa celeste, insieme formanti l’unico e totale corpo del Signore” (E. Bianchi).

Il brano dell’Apocalisse ci fa entrare nella visione esaltante della moltitudine immensa degli eletti che stanno dinanzi all’Agnello, i battezzati segnati dal sigillo dell’appartenenza a Dio ai quali nessuno potrà recare danno. Il brano della lettera di Giovanni ci chiarisce il fine della nostra esistenza: contemplare Dio non più attraverso il velo delle cose create, ma viso a viso, come già avviene per i santi che oggi festeggiamo. Il Vangelo ci rimanda all’origine terrena di questa inaudita felicità e impensabile destino: noi siamo quel popolo delle beatitudini che nelle parole benedette del Maestro hanno riconosciuto l’inizio e il segno della vita cristiana.

Il Vangelo tutto, serve a ricordarci che per giungere alla santità è necessario integrare pienamente nella nostra vita l’insegnamento di Gesù: divenire, giorno dopo giorno, simili al nostro Padre celeste, vivendo nella logica delle Beatitudini. Possiamo dire che il Signore Gesù ci ha indicato una “pista” su cui correre ad alta velocità. Ci ha detto: “Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Molti, purtroppo, preferiscono ripiegare verso una carreggiata più lenta, appesantita da tratti paludosi, piena di ostacoli ingombranti.

Di solito, si accomuna la festa dei santi col ricordo dei defunti. È un costume che ha una certa sapienza. Il cimitero, infatti, mette in risalto una verità spesso sottaciuta e rimossa: la nostra precarietà su questa terra e la caducità di tutte le cose. Comprendere la verità dei defunti, sentirci legati allo stesso destino, può darci il brivido del presentimento (la nostra morte), ma fa acquistare la sapienza del cuore. Se viviamo come se la morte non ci fosse, la Scrittura ci chiama stolti. Per chi ha fede, la comune-unione con i nostri defunti, pur vivendola nel mistero e nella oscurità, apre l’animo ad accettare “la nostra corporal sorella morte” (San Francesco) non solo senza disperazione, ma anche come un’attesa piena di speranza, che è il gigantesco segreto del cristiano: ecco la festa dei Santi! Purtroppo, sui Santi venerati sugli altari, ci sono, in alcuni, delle degenerazioni che sono da rigettare e non da favorire. La devozione dei santi deve essere vissuta non solo e non principalmente con invocazione, ma più con l’imitazione del loro amore a Dio e ai fratelli.

Una imitazione che non è la copia esatta di ciò che essi hanno fatto, ma piuttosto la ricerca di ciò che dobbiamo fare noi, spinti dal loro esempio e dalla loro intercessione: rispondere, cioè, al disegno che Dio ha su ciascuno di noi e sulla sua Chiesa, popolo di Dio in cammino. La festa di oggi pone l’accento non tanto sui santi canonizzati, quanto sui santi delle beatitudini, quelli cioè che hanno vissuto le beatitudini nel corso della loro vita: anonimi, sconosciuti, ma innumerevoli! Una carovana senza nome di uomini e donne, che, attraverso i secoli, hanno confidato nel Signore, preferendo Lui e la sua Parola alle altre parole. Sono tanti e forse ne conosciamo molti anche noi! Senza chiasso, senza essere quasi notati, nel servizio umile degli altri, nella preghiera semplice al Signore, hanno superato le prove del dolore, le lusinghe delle tentazioni, senza staccarsi da Gesù.

La comune-unione con queste creature anonime, con questa carovana di santi senza altare, noi la viviamo cercando di realizzare, come loro, una vita conforme alle beatitudini, in cui cioè: sia bandito il dominio del ricco sul povero; sia preferito l’afflitto a coloro che affliggono; siano promossi il bene, la fame e la sete di giustizia; siano continui la misericordia, il perdono e la riconciliazione; sia costume di vita la purezza del cuore, e non l’ipocrisia e il sotterfugio. Nella celebrazione di tutti i santi la Chiesa ascolta la promessa di Dio che la chiama a partecipare alla sua stessa santità, e ricorda che tale è la vocazione di ogni battezzato. Se la liturgia ci fa fare memoria oggi di tutti i santi nel loro insieme, non è tanto per la preoccupazione di dimenticarne qualcuno, o per integrare il numero di coloro che vengono ricordati nelle singola celebrazioni durante l’anno liturgico, quanto per affermare il carattere universale della chiamata alla santità. I santi sono “primizie per Dio e per l’Agnello” (Ap 14,4): in essi è già santificato l’intero genere umano insieme a tutta la creazione. L’Apocalisse afferma che il loro numero è sterminato (cfr Ap 7,9): 144 mila (cfr Ap 7,4) non indica un limite, ma una pienezza e una totalità. Finché il sigillo di Dio non è impresso nella loro fronte la terra e il mare non possono essere devastati, come a indicare che la loro vita diviene sacramento di salvezza e di redenzione per il cosmo intero (cfr Ap, 7,3).

Se la liturgia ci offre di contemplare la loro vita e il loro destino, non è tanto per offrirci dei modelli da imitare, quanto per condurci  a riconoscere la multiforme grazia con cui Dio visita e trasforma la nostra storia. Questa moltitudine immensa grida: «La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello» (Ap 7,10). Sì, la santità dei redenti è testimonianza non delle loro virtù o delle loro qualità, ma dell’essere stati salvati dall’amore di Dio, che ci rende realmente suoi figli chiamandoci sin d’ora a quella somiglianza con il suo volto che si attuerà in modo pieno e definitivo quando “egli si sarà manifestato e  noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (cfr 1Gv 3,1-2). Signore, come i santi voglio scommettere tutta la mia esistenza sul Tuo futuro e nella speranza; concedimi di ricevere sempre più il dono della vita nuova, che la mia libertà sappia accogliere e far fruttificare.

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