Il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato, ma sempre sulla sofferenza della persona

Commento al vangelo

Don Simone Calabria
26/03/2017
Attualità
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IV DOMENICA DI QUARESIMA A

(1Sam 16,1.4.6-7.10-13; Sal 22; Ef 5,8-14; Gv 9,1-41)

 

Domenica scorsa abbiamo visto come il Signore si propone all'uomo, ad ognuno di noi: Egli è Dio che si fa uomo perché ha sete di noi, ha sete della nostra fede.

Abbiamo appena ascoltato il racconto della guarigione del cieco nato: è piena di significato perché Gesù conferma con i fatti di essere la luce; senza la luce che è Cristo noi camminiamo nelle tenebre (2a Lettura) e questo Gesù che è la luce, domanda di essere creduto.

Gesù vide un uomo cieco dalla nascita. Gesù vede. Vede l’emarginazione da parte del paese, vede l’ultimo della fila, un mendicante cieco. Vedono un’invisibile. E se gli altri vanno dritti, Gesù, invece, no, si ferma. Senza essere chiamato, senza essere pregato. Gesù non passa oltre, per Lui ogni incontro è una meta. Vale anche per noi, ci incontra così come siamo, con le nostre fragilità, con i nostri peccati: Il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato, ma sempre sulla sofferenza della persona.

I discepoli che da anni camminano con lui, i farisei che hanno già raccolto le pietre per lapidarlo, tutti per prima cosa cercano le colpe: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perchè sia nato cieco?”. Cercano peccati per giustificare quella cecità. Gesù non giudica, si avvicina, si prende cura del bisogno dell’uomo. E senza che il cieco gli chieda niente, “sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco”.

“Va’ a lavarti nella piscina di Siloe, che significa “Inviato”. Il mendicante cieco si affida al suo bastone e alla parola di uno sconosciuto. Si affida quando il miracolo non c’è ancora, quando c’è solo buio intorno a lui. “Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”.

Non si appoggia più al suo bastone; non siederà più a terra a chiedere pietà, ma in piedi cammina finalmente libero di vedere. Finalmente uomo.

Per la seconda volta Gesù guarisce di sabato. E invece del canto di gioia entra nel Vangelo un’infinita tristezza. Ai farisei non interessa la persona, ma il caso da “manuale”; non interessa la vita ritornata a splendere in quegli occhi, ma la “sana” dottrina. E vediamo l’uomo che passa da miracolato a imputato.

Gesù è la luce del mondo ma lo è per misericordia del Padre e sua. Cristo è Colui nel quale crediamo, ma il credere non è una conquista, il credere è soprattutto un dono, è riconoscere una Presenza che ci cambia la vita. Una delle difficoltà del credere oggi è proprio questa: che siamo quasi tutti tentati dalla pretesa di arrivare a credere con le nostre forze.

Certo, questo non deve scoraggiare il nostro impegno di confrontare con la fede ogni situazione, ogni evento che ci accade.

Noi come credenti abbiamo bisogno di credere in Cristo e di credergli per un motivo solo: perché è Cristo.

Non perché quello che dice ci pare giusto. In realtà crediamo in Cristo quando accettiamo quello che dice.

Se non diventiamo capaci di credere così, noi non sappiamo ancora che cos’è la fede: perché la fede è essenzialmente questo: riconoscere una Presenza: il Signore Gesù. Se non cerchiamo di capire questo, la nostra fede non diventerà adulta e resterà sempre una nebbia in cui navigheremo come naufraghi.

 

Conclusione: La liturgia di oggi ci richiama fortemente a questo: la fede ha bisogno di diventare il dono di Dio e dobbiamo avere la gioia di pensare a Cristo come a Colui che è la luce dei nostri occhi, del nostro cuore. Amen!  

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