Chiunque oggi si rechi presso l'Abbazia di S. Vincenzo, a circa un miglio dalle sorgenti del Volturno, anche il meno esperto di archeologia, noterà certamente che tutta l'area è caratterizzata da una grande quantità di rocchi di colonne, lapidi, frammenti di epigrafi, cornici e fregi, confusi in maniera caotica o, comunque, apparentemente senza un particolare criterio. Un esame più approfondito porta a riconoscere che tali elementi provengono da diversi edifici appartenuti ad epoche e luoghi differenti.
Accompagnati dalle puntuali ricognizioni degli archeologi e degli studiosi che da oltre un secolo indagano tra le rovine di quella che fu una delle più importanti città monastiche d'Europa e sulla scorta delle descrizioni che il monaco Giovanni raccolse nel suo “Chronicon Vulturnense”, possiamo ricostruire una storia che, giorno per giorno, si arricchisce di nuovi particolari, pur se molti aspetti della sua plurimillenaria vicenda, forse, rimarranno avvolti per sempre nel mistero.
Per cercare di capire qualcosa di più cercheremo di riassumere gli aspetti peculiari del territorio immediatamente circostante le fonti del Volturno, richiamando anche i deboli suggerimenti che ci provengono da brandelli di storia nascosti tra le righe di documentazioni depositate frammentariamente in luoghi, a volte, lontani dalla nostra abbazia.
Preliminarmente va considerato che il Volturno, l'antico “Volotrone”, è il fiume più importante della parte appenninica della penisola italiana ed ha le sorgenti situate in un'area che è posta nella parte più stretta della stessa penisola, tra l'Adriatico ed il Tirreno, in posizione quasi equidistante tra i due mari. Un luogo sicuramente attraente per una popolazione, come quella dei primi Sanniti, che sfuggiva ad una carestia. Il corso d'acqua, prima di dirigersi rapidamente verso la valle venafrana per raggiungere poi, con calma, la sua foce in Campania, compie un itinerario tortuoso dopo aver scavato il suo letto nella grande platea di travertino, la più alta degli Appennini, della piana di Rocchetta. Una piccola pianura, peraltro, che, per la sua lieve pendenza (che impediva naturalmente l'impaludamento) e per le sue caratteristiche geomorfologiche, si presentava particolarmente utile ad una economia, quella dei primi Sanniti, prevalentemente pastorale sebbene integrata da una agricoltura dove ancora non erano sviluppate le tecniche di bonifica adottate successivamente, in maniera sistematica, dai Romani.
Girando attorno al Colle, detto “della Torre”, formò nei tempi antichi almeno due Isole, di cui rimane il ricordo nel toponimo ancora esistente di “Colle dell'Isola” e nei nomi di due chiese citate nel “Chronicon Vulturnense”: S. Maria in Insula e S. Laurencius in alia Insula.
Già in epoca preistorica, tra i novantamila ed i cinquantamila anni fa, nel periodo cosiddetto musteriano, gli abitatori di queste terre si avvicinavano all'acqua lasciando tracce consistenti dei loro insediamenti . Ma furono le popolazioni italiche del Sannio a decidere di costituire per la prima volta un nucleo abitato, certamente importante, in questa zona che poi suscitò forti interessi dei conquistatori romani e dei successivi bonificatori benedettini. Su un lato del Colle e nelle immediate vicinanze dei ruderi dell'antica abbazia, infatti, si ritrovano reperti architettonici e frammenti di ceramica che attestano la presenza di insediamenti precedenti a quelli più vistosi del periodo romano.
Secondo una antica leggenda narrata da Festo, che la riprendeva da Verrio Flacco e da Strabone, i Sabini, spinti da una carestia e guidati da un toro, abbandonarono la propria terra in cerca di luoghi più favorevoli. Sul colle dove il toro si fermò essi decisero di fondare una città. Essi venivano chiamati Sanniti perché avevano lunghe lance, in greco “saunai”, ed il colle perciò prese il nome di “Sannio”.
Una serie di elementi frammentari, ma di sicuro interesse storico per la ricostruzione di una storia sepolta dal tempo, porta a riconoscere in questa parte del Sannio quella città che, come riporta Paolo Diacono riprendendo da Festo, diede il nome a tutta la regione: “La quattordicesima regione è il Sannio, che si trova tra la Campania, il mare Adriatico e l'Apulia, e comincia dalla città di Pescara. Vi si trovano le città di Teate, Aufidena, Isernia e Sannia, ormai distrutta dal tempo ma da cui prende nome tutta la regione, e infine Benevento, la città più ricca nonché capoluogo di tutte queste regioni. I Sanniti presero a loro volta il nome dalle aste che erano soliti portare e che i Greci chiamavano appunto saunia”.
Sulla base delle più recenti scoperte abbiamo oggi la possibilità di affermare con certezza che sulla platea di travertino immediatamente vicino al complesso monastico esistesse un nucleo abitato, dal carattere non provvisorio, databile almeno al VI - IV secolo prima di Cristo o comunque ad un epoca anteriore alla conquista romana del Sannio. Durante i lavori di sistemazione del giardino nell'area del palazzo abbaziale del nuovo S. Vincenzo, si è rinvenuto un sepolcreto con un numero di sepolture straordinario, molte delle quali conservatesi intatte, altre smosse in epoca medioevale. Si tratta di sepolture ricavate direttamente nel travertino relizzando una serie di fosse perfettamente rettangolari, per una profondità media di oltre un metro, con orientamento prevalente verso oriente. All'interno sono state trovati, insieme allo scheletro del defunto, corredi funerari costituiti da vasellame in ceramica nera, fibule e decorazioni di bronzo, una collana di ambra, materiale vario.
Una delle sepolture era occupata da una donna in avanzato stato di gravidanza. Tutta la necropoli interessa una vasta area quasi totalmente disturbata nell'XI secolo dalla costruzione degli edifici che costituirono l'impianto di quelli attuali.
Il carattere delle tombe rinvenute intatte è sufficiente per garantire che non si tratti di sepolture casuali ed attesta l'esistenza di una vita comunitaria attiva nelle immediate vicinanze, probabilmente proprio nell'area occupata dal monastero più antico, dall'altra parte del ponte della Zingara.
Chi abbia distrutto realmente “Sannia” non è dato sapere. Certamente questa città fu conquistata da Scipione Barbato nel 298 a. C., come tenne a ricordare ai posteri il figlio del console romano quando nel 259 a. C. fece scolpire l'”elogium” sul sarcofago che conteneva le spoglie del padre fin dall'epoca della sua morte: “Taurasia Cisaunia Samnio cepit...”.
Sebbene si sia sollevato qualche dubbio sulla datazione dell'accaduto, certamente quando il figlio di Scipione Barbato viveva, ancora rimaneva il ricordo di una città che si chiamava “Sannia”.
Il problema della esistenza di una città chiamata Sannio sollevato dal Petroccia (Samnium 1980 e 1981) è stato ripreso da J. PATTERSON nel 1985 in “San Vincenzo al Volturno. The Archaeology, Art and Territory of Early Medieval Monastery” (British Archaeological Reports, Oxford), pp.185-199, pubblicato finalmente in italiano sull'Almanacco del Molise 1990 (Campobasso 1989).
Sinteticamente ha ribadito l'interpretazione più logica affermando l'evidenza che l'Elogium si riferisca alla conquista, da parte di Scipione Barbato, di tre città e non di due città ed una regione, come ipotizzato, con argomenti poco convincenti, da altri.
Con la definitiva sconfitta dell'esercito sannitico nel 295 a. C., insieme alla sistematica demolizione di tutte le fortificazioni che difendevano il territorio, anche della città di Sannia ormai si era persa ogni traccia fisica. Così racconta Floro: “In cinquanta anni (l'esercito romano), grazie ai Fabii ed ai Papirii ed ai loro padri, sottomise e domò popoli liberi, distrusse a tal punto le stesse rovine delle città, che, se oggi si voglia cercare Sannio nel Sannio, difficilmente si troverà qualcosa che giustifichi la celebrazione di ventiquattro trionfi”.
Effettivamente se Floro, nel II secolo d. C., quando scriveva delle rovine di Sannia, si fosse recato alle sorgenti del Volturno, non avrebbe trovato traccia dell'antico insediamento. Al suo posto, da tempo, i conquistatori romani avevano impiantato un nucleo abitato che sicuramente avrebbe potuto avere notevole importanza nel territorio se non si fossero sviluppati in maniera particolare i centri vicini di Aesernia e Venafrum. Certo è, infatti, che l'insediamento alle sorgenti del Volturno mai raggiunse caratteristiche tali perché potesse essere considerato una vera e propria città.
Già molto prima della venuta di Cristo, in epoca repubblicana, nella parte della collina che volge a Oriente guardando il corso del Volturno, fu costruito un grande edificio di cui oggi si è ritrovato il basamento sotto le strutture della basilica di S. Vincenzo Maggiore.
Attorno ad esso si articolò un vicus che, sebbene costituito da casupole di poca rilevanza architettonica, si sviluppò impegnando un’estensione di circa 10 ettari di terra fino al I secolo d. C., quando fu sostituito da una grande villa-fattoria, dipendente dalla “praefectura” di Venafro.
Il nucleo, che probabilmente conservò il nome di Sannia, continuò per molto tempo ad essere utilizzato trasformandosi ed adattandosi alle esigenze dei suoi abitanti. Si fecero opere idrauliche di un certo impegno per evitare che le piene del fiume danneggiassero gli edifici e le attività più vicine al corso d'acqua. Almeno un canale (se non due) fu scavato sulla sponda destra, in maniera che l'acqua, sollevandosi nei periodi di piena, defluisse facilmente senza provocare l'allagamento della sponda sinistra. Per collegare le due sponde furono costruiti, a più riprese, vari ponti di cui rimangono consistenti tracce. Uno di essi, quello oggi detto della Zingara, probabilmente del III secolo d.C., è ancora perfettamente funzionante.
L'assenza di epigrafi significative rende, poi, problematico capire cosa sia avvenuto in quest'area dal IV all'VIII secolo d. C.. Vi è però da notare che la cronaca vulturnense non riporta solo le vicende del monastero, ma anche una serie di notizie che evidentemente derivavano da altre fonti, apparentemente contraddittorie e che, alla luce dei recenti scavi archeologici, appaiono molto più attendibili o comunque degne di essere riconsiderate.