Giorni fa abbiamo dato l’estremo saluto a Luigi Fabrizio, per tutti Gino lu barreste. Biondo Tomeo, barista pure lui, lo ha salutato così: “Se ne va un altro grande barista di San Salvo”. Una frase dolce, che mi ha fatto molto riflettere e che ha generato questo editoriale.
E' vero che i baristi sono “grandi”: anzitutto perché lavorano tanto, ma anche perché assolvono ad una grande funzione di socializzazione, specialmente nelle micro comunità e nei quartieri periferici delle grandi città. E’ stato stimato che c’è un bar ogni 300 abitanti, cosa che potrebbe farci pensare: ma come fanno a vivere con un mercato così ristretto ? Sicuramente le medie non ci aiutano a capire e comunque trecento avventori non sono pochi, perché i bar sono luoghi di incontro, di intrattenimento ed anche di vizi. Per cui non è che un abitante va al bar una sola volta al giorno e prende una sola consumazione.Nei bar ci si va più volte e si spende più volte.
Nei bar ci si va non solo per soddisfare il bisogno primario di dissetarsi durante la calura estiva o di introitare un po’ di caffeina per svegliarsi. Non solo per abitudine, infatti prendere il caffè è un rituale. Ci si va soprattutto perché noi tutti abbiamo bisogno di socializzare, dovendo incontrare gli altri e scambiare quattro chiacchiere. I bar sono luoghi di coesione sociale. Lo sono stati anche nella società preindustriale, durante la quale lo svago passava per il gioco delle carte ed il relativo consumo di vino o birra.
Il gioco nei bar d’ un tempo era la cosiddetta “passatella”, basata sui ruoli della società contadina: il padrone, il sotto, il gregario – beneficiato. Le carte si divertivano a rovesciare i ruoli sociali, che invece socialmente erano immutabili. Forse per questo gli uomini giocavano. Al bar potevano “comandare” se risultavano vittoriosi, diversamente dalla vita grama che li teneva sottomessi nelle gerarchie sociali d’ un tempo. Ma ad un certo punto tali gerarchie si sono rovesciate per davvero e non per gioco e fu quando la cultura industriale sotterrò la cultura contadina: non c’era più bisogno di giocare a padrone-sotto e né ad ubriacarsi “per scordare i guai e le cambiali” (come cantava Tony Santagata). L’ascensore sociale, spinto dall’economia del benessere, consentì di liberarsi dalle vecchie illusioni e dagli antichi rituali.
A San Salvo questo passaggio ci fu negli anni settanta del secolo scorso. E Gino Fabrizio fu uno dei primi tra i nostri baristi a capirlo, comprendendo che il bar poteva restare anche solo un luogo di socializzazione e di incontro tra le persone nel tempo libero o durante le pause di lavoro. Praticamente comprese che nel suo bar non c’era più bisogno di consentire lo svolgimento di tornei a carte e birra. Infatti, fu il primo a toglierle le carte, aiutato dalla posizione centrale del suo locale, che non a caso denominò Bar Centrale.
Il suo era un nuovo bar accanto al nuovo municipio, in pieno centro, che avrebbe potuto accogliere gli automobilisti transitanti sulla vecchia Statale (Nazionale), che avrebbe potuto ristorare i primi dipendenti comunali, i primi imprenditori edili e commercianti del centro storico. Infatti, fu facile a Vincenzo e Giuseppe (che da Gino lo presero in locazione) “trasformare” il Bar centrale in Bar – Pasticceria. Grazie alla scelta di “togliere” le carte, potevano entrare pure le donne e le famiglie, senza timore che potessero partire parole sconce dai giocatori di carte un po’ brilli.
Il Bar Centrale fu uno degli indicatori che segnarono il passaggio a San Salvo dalla società contadina a quella industriale: Gino che era stato artigiano, prima di diventare barista ed aveva ben compreso il passaggio epocale, come avrebbero capito molti suoi colleghi qualche anno dopo di lui: oggi in tutta città, tra decine e decine di bar, si gioca a carte solo in un paio.