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La fiducia del padrone mette al centro la persona del servo

Commento al vangelo

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Il problema non è tanto la quantità della fede, ma la sua qualità. Infatti, se la fede fosse autentica, anche una quantità minima come quella di un granellino di senape, basterebbe per compiere cose prodigiose. Alla domanda degli apostoli: “Accresci in noi la fede” (Lc 17,5). Gesù risponde con un’immagine vivace e paradossale, tipica del suo linguaggio: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirà» (Lc 17,6).

Gli apostoli domandano perché evidentemente avvertono tutta la loro povertà. Nella sua risposta Gesù ricorda che per quanto piccola, la loro fede, è già fede, e come tale basta. Anche una fede molto piccola, come un granello di senape, il più piccolo di tutti i semi, “è già efficace, purché sia una fede autentica. Quindi, non importa la quantità della fede, ma la fede in quanto tale” (G. Rossè). La fede, come il regno, può essere piccola, ma straordinariamente efficace: piccola ma autentica; povera ma efficace.

Qui c’è tutto il paradosso della fede, che la parola di Gesù ricorda. Per essere grande, la fede deve rimanere piccola. Tanto più accetta la propria povertà, la propria dipendenza, la propria mescolanza con l’incredulità, tanto più è grande e potente, perché diventa spazio in cui abitare e manifestarsi la potenza stessa di Dio. Avere fede, infatti, significa proprio questo: non fidarsi di sé e delle proprie possibilità, ma affidarsi, con estrema confidenza e fiducia, alla possibilità stesa di Dio. È la logica paradossale di Dio e della Pasqua: quanto più il credente scopre la propria debolezza e la vive nell’affidamento, tanto più sperimenta nella propria vita la forza rigeneratrice di Dio.

È nella morte che si manifesta la potenza della risurrezione, come pure in quel morire alla propria presunzione, al proprio desiderio di grandezza, alla propria autosufficienza. Come scrive san Paolo: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). È quando la fede è piccola che è grande. I Dodici domandano il dono della fede, ma in questa domanda si manifesta già la loro fede. Infatti: chiamano Gesù Signore con il titolo pasquale che appartiene solo a Dio; riconoscono la loro povertà e la loro mancanza; chiedono a Gesù di riempire questo loro vuoto.

E cosa è la fede se non questo: riconoscere la signoria di Gesù e affidarsi a Lui in tutti i nostri bisogni e le nostre povertà? Ci può essere fede più grande di questa? Con la loro domanda i discepoli mostrano che questa è appunto la dinamica della fede. La fede alimenta se stessa, trova in se stessa il proprio nutrimento. La fede conduce ad affidare la propria povertà al Signore, ed è in questo affidamento che matura e cresce.

Gesù poi narra la parabola dei padroni e dei servi per far capire che solo chi vive una fede piccola come un grano di senape può dire di sé “sono un servo inutile”. In questa inutilità si manifesta la grandezza della fede. Il servo deve riconoscersi inutile, senza merito, senza diritto, non perché è alla completa mercé del suo padrone; ma perché solo riconoscendo che il suo servizio non gli conferisce alcun merito e alcun diritto, può assaporare tutta la bellezza e la gratuità del dono di Dio.

Sapersi servi inutili e immeritevoli, significa scoprire il volto della gratuità di Dio e del Suo amore immeritato. Nella parabola ciò è espresso in forma negativa: Dio non deve nulla a nessuno. Dio non è qualcuno cui si possa presentare il conto o da cui reclamare un debito. In positivo questo significa che tutto ciò che dà Lo dona gratuitamente, perché è buono, come ricorda la parabola degli operai dell’ultima ora (cfr Mt 20,1-16). Non perché noi con il nostro servizio o il nostro lavoro abbiamo meritato qualcosa da Lui, ma perché Egli è buono. E dona gratuitamente.

L’inutilità del servo ha tuttavia un altro risvolto: la logica della gratuità trasforma nello stesso tempo sia l’atteggiamento del servo sia quello del suo padrone. Infatti, rompere la logica della ricompensa per aprirla alla gratuità significa anche aprire il rapporto alla reciproca fiducia. Da una parte il servo non avanza pretese per il suo lavoro; dall’altra il padrone non condiziona la sua fiducia a quanto il servo farà o no.

Non gli dice: se ti comporterai bene, ti ricompenserò. Gli dice semplicemente: fa quello che devi perché io ho fiducia in te. L’inutilità del servo evidenzia la confidente fiducia del suo padrone. Una fiducia preveniente, già data in anticipo. La logica della ricompensa mette in primo piano al padrone il lavoro del servo: ciò che il servo farà o no. La fiducia del padrone, invece, mette al centro la persona del servo: ciò che lui è. L’inutilità è liberante tanto per il servo quanto per il padrone. Dio è così: un Signore che rimane consapevole dell’inutilità dei suoi servi e proprio per questo motivo si dispone ad amarli e apprezzarli non per quello che fanno o no, ma per quello che sono.

 

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