Il Vangelo dice che autorità, popolo e soldati deridevano Gesù e un condannato Lo insulta. Non deve meravigliare, quindi, se la Chiesa è fatto segno d’insulti e di attacchi. Gesù l’aveva detto: “Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20); “Sarete odiati da tutti a causa del mio nome” (Lc 21,17). Può sembrare strano celebrare Cristo re. Un re dovrebbe essere vittorioso mentre, il nostro re, messo in croce appare un vinto. E, noi cristiani, nella vicenda storica, siamo vincitori o perdenti?
La regola sicura per vivere soddisfatti è quella di stare dalla parte del vincitore. E soprattutto, noi italiani, come ha detto qualcuno, conosciamo bene questa regola furbesca e ci sforziamo di rispettarla. Ma per quanto riguarda la fede? Il Signore non ha mai promesso una marcia trionfale o una passeggiata sotto mandorli in fiore! Secondo il Vangelo, i veri vincitori sono i martiri. Noi non crediamo in una filosofia, ma in un “fatto”. E il fatto è Gesù, che si è incarnato per salvare l’uomo. Questo è difficile da essere capito e accettato! Qualcuno ha detto: “I martiri sono inattaccabili: più fango si getta loro addosso, e più chiara diventa la loro figura” (Wolkowski).
Così deve essere anche per noi. Più fango ci buttano addosso, e più limpida e coerente deve apparire la nostra vita cristiana e la nostra testimonianza. Nella storia, infatti, siamo chiamati a testimoniare la regalità di Cristo condividendo le Sue sofferenze, invocando la venuta del Regno, e attendendo il Veniente nella gloria. Oggi è richiesta la nostra serietà di testimoni di un Re che non cerca il potere ma l’amore e il servizio. È richiesta la nostra autenticità e la fedeltà al Vangelo. Il principale dovere che abbiamo, come seguaci di Cristo, è quello di essere credenti credibili in una società sempre più in crisi. Credibili e attraenti, con il nostro esempio. Credibili e coerenti.
Credibili e fedeli, sempre, comunque, e ovunque. Gesù messia debole, impotente, sulla croce, si affida radicalmente al Padre (cfr Lc 23,46), e vede affidarsi a Lui un malfattore crocefisso con Lui. Gesù unisce a sé quest’uomo promettendogli comunione: “Oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23,43). Per tre volte Gesù è deriso come Messia e per tre volte i suoi avversari gli rivolgono l’invito a salvare se stesso, quasi che proprio la capacità di sottrarsi alla croce, di salvare la propria vita fosse per loro il sigillo dell’autenticità della messianicità (cfr Lc 23,35.37.39). Ma è proprio la autosalvezza ciò che è impossibile nell’ambito cristiano, quello che contraddice radicalmente la salvezza cristiana. Gesù l’aveva detto: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9,24).
E dopo aver annunciato che chi perderà la vita a causa Sua, la salverà, Egli stesso è passato attraverso l’esperienza del perdere la propria vita. Mettere in salvo la propria vita è la grande tentazione, cui Gesù si era sottoposto già nelle tentazioni all’inizio del suo ministero (cfr Lc 4,1-3). Salvare la propria vita è la nostra tentazione costante. Eppure, chi cerca se stesso, chi vuole salvare se stesso, ossia fa di se stesso un fine, il proprio fine, perde se stesso. La regalità di Gesù è derisa (cfr Lc 23,35-37), insultata (cfr Lc 23,39); di essa ci si fa beffe (cfr Lc 23,35-37) o si cerca di sfruttarla a proprio vantaggio (cfr Lc 23,39). Gesù vive lo scandalo del Messia perduto, ma così raggiungere chiunque si trova in situazioni di perdizione.
Sappiamo così che la condizione indispensabile per incontrare e aiutare l’altro nella sua sofferenza, è condividere qualcosa della sua impotenza e debolezza. “Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza e della sua sofferenza […] La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare” (Bonhoeffer). La regalità di Gesù capovolge dunque la logica di potenza e forza che regge le regalità umane. Gesù mostra la Sua signoria manifestando la Sua capacità di giudizio e di divisione: Egli è segno di contraddizione e di fronte a Lui ci si divide, si svelano i pensieri del cuore (cfr Lc 2,34-35).
Dei due crocefissi con Lui uno lo insulta, l’altro lo prega. In particolare, il cosiddetto “buon ladrone”, appare “tipo” del discepolo cristiano. Egli, innanzitutto, opera la correzione fraterna “rimproverando” (cfr Lc 23,40) l’altro che insulta Gesù, e mette così in atto la parola di Gesù: “Se tuo fratello pecca, rimproveralo” (Lc 17,9); inoltre egli appare simbolo della colpevolezza: riconosce il male che ha commesso e ne accetta le conseguenze (cfr 23,41); poi esprime una confessione di fede riconoscendo l’innocenza di Gesù (cfr Lc 23,41); infine si rivolge a Gesù con la preghiera, riconoscendone la regalità escatologica: “Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42). Questo ladrone è il primo a capire cosa significa che il Suo regno non è di questo mondo (cfr Gv 18,36) e ha compreso anche che quel Regno è l’unico valido. Indovinò: “Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,43). Questo Regno però non è puramente celeste: si costruisce qui e ora seguendo il cammino di Gesù.