Partecipa a IlTrigno.net

Sei già registrato? Accedi

Password dimenticata? Recuperala

NON CI SONO PIÙ I LAVORATORI POVERI DI UNA VOLTA…ED IL LAVORO “POVERO” NON ESISTE….

L'EDITORIALE DI NICOLA DARIO

Condividi su:

Secondo il Cnel il salario minimo legale non serve: il problema dei salari bassi esiste, ma un salario minimo per tutti non sarebbe la soluzione. Il centro, guidato da Brunetta, si è allineato alla posizione del governo, secondo cui serve semplicemente un rafforzamento dei vari contratti collettivi: “Un trattamento retributivo contrattuale è per definizione adeguato se frutto di un sistema di relazioni industriali rappresentativo.” 

Il documento, a dire il vero, si contraddice in più punti: a un certo punto ammette che esistono “​​settori o ambiti lavorativi (es. appalti di servizi) che non sembrano tuttavia garantire trattamenti retributivi adeguati, almeno stando agli indicatori suggeriti dalla direttiva europea, e cioè il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio, e come confermato da recenti interventi della magistratura.” Il Cnel inoltre minimizza il problema dei contratti pirata e non ritiene un problema neanche il fatto che 7,5 milioni di lavoratori italiani sono sì protetti da un contratto collettivo, ma che questo sia scaduto ormai da anni: “Non sempre ritardo è sinonimo di non adeguatezza del salario.”, scrivono.

Il rapporto del CNEL è arrivato proprio il giorno dopo una sentenza della Cassazione che segnalava l’urgenza di un intervento del legislatore sulla questione salariale — che però, probabilmente, a questo punto avrà una buona scusa per lavarsene le mani.  A questo punto non resta che attendere il voto in Parlamento del 17 ottobre sulla proposta delle opposizioni per un salario minimo di 9 euro all’ora, mentre la raccolta firme in proposito è ancora aperta — anche se Conte, su molte altre questioni, sta progressivamente prendendo le distanze da Schlein per evitare di passare definitivamente al Pd la palla di principale forza di opposizione. 

Faccio un passo indietro... il Rapporto annuale INPS presentato il 13 settembre scorso ha rivelato che i 99 contratti collettivi nazionali di lavoro più importanti "coprono" la quasi totalità dei dipendenti (95,6%); e che oltre il 96% dei dipendenti risulta “coperto” da un contratto collettivo firmato da CGIL-CISL-UIL. Non solo: ben 582 contratti collettivi "micro" sono applicati allo 0,4% dei dipendenti, cioè meno di 500mila lavoratori. Ma si continua a parlare degli oltre 1.000 contratti collettivi depositati al Cnel e del dilagare dei contratti pirata. Il rapporto ha evidenziato una altra cosa che strania: i “working poor”, i lavoratori poveri, si sono ristretti. Da 4,3 milioni nel 2022 a 20.300 nel 2023.!!!

 L’Inps ha spiegato che quelli che lavorano a tempo pieno e che sono poveri «per ragioni salariali» – cioè, perché guadagnano poco – sono solo 20.300, lo 0,2 per cento dei dipendenti italiani. Un anno prima, lo stesso rapporto ne aveva calcolati 4,3 milioni sotto i 9 euro l’ora, la soglia indicata per il salario minimo.  Possibile? Che cosa è successo? La differenza evidente nei numeri ha generato polemiche e accuse di «tortura dei dati» per compiacere il governo di turno

Il rapporto 2022 era stato stilato quando alla presidenza dell’Inps c’era Pasquale Tridico, in quota Cinque Stelle, grande sostenitore del salario minimo. Al suo posto, Giorgia Meloni ha nominato una commissaria straordinaria, Micaela Gelera, espressione di un governo che il salario minimo non lo vuole. E quindi che fine hanno fatto i lavoratori poveri?

Non sono scomparsi, semplicemente è cambiato il modo di contarli. Nel rapporto Inps di quest’anno vengono considerati solo quelli che lavorano tutto l’anno a tempo pieno. Fino all’anno scorso l’Inps considerava tutti, quindi anche quelli con contratti part-time, a tempo, stagionali, agricoli e domestici. Ed è per questo che i poveri ora sono molti di meno.
Secondo la classificazione dell’Inps, i “lavoratori poveri” sono quelli con una soglia di retribuzione giornaliera lorda sotto i 24,9 euro per i part-time e 48,3 euro per i full time. 

L’Inps non usa come soglia quella dei 9 euro l’ora, ma si riferisce allo standard europeo del 60% della retribuzione mediana, che corrisponde a circa 7,5 euro l’ora. Nel mese di ottobre 2022, i lavoratori poveri sotto questa soglia sono stati 871.800, il 6,3 per cento del totale. Di questi, 355mila sono a tempo pieno e 517mila a part-time.

Il ragionamento dell’Inps è che se da questo insieme si tolgono quelli che lavorano poche ore o pochi giorni – a «bassa intensità di lavoro» – si arriva ai 20.300. Troppo pochi, dicono, perché il salario minimo abbia un impatto rilevante.Il problema – conclude l’INPS– non sono quindi i salari, ma i contrattini, le false partite Iva, i finti tirocini e stage, oltre che il lavoro nero. Sono quelle che l’Inps definisce come «aree borderline» rispetto ai contratti da dipendente. I settori più a rischio: edilizia, servizi alle imprese, alloggio e ristorazione. Apprendisti, intermittenti e somministrati le figure più in pericolo. La lettura che dà l’Inps di fatto rende inutile la proposta di salario minimo a 9 euro l’ora arrivata dalle opposizioni. Se non in via sperimentale e circoscritta ai settori in cui sono più diffusi i contratti più deboli.  Che poi è il compito che Meloni ha dato al Cnel. .Ed eseguito funzionalmente... 

 Nell’audizione sul salario minimo dello scorso luglio, l’Istat ha spiegato che i rapporti con retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi sono quasi un quinto del totale (il 18,2%, circa 3,6 milioni di rapporti) e coinvolgono circa 3 milioni di lavoratori.  L’istituto spiega anche però che «a determinare la condizione di dipendente a bassa retribuzione sono gli effetti legati a una ridotta durata dei contratti di lavoro e a un numero contenuto di ore lavorabili, oltre a quelli – pur rilevanti – legati a un basso livello di retribuzione oraria». 
Secondo la commissione presieduta dall’economista Andrea Garnero, incaricata dall’ex ministro Andrea Orlando di stilare un rapporto sul lavoro povero, i lavoratori poveri sono invece il 13,2 per cento, quelli a bassa retribuzione il 31 per cento. Anche in questo caso, i numeri sono più alti perché si considerano tutti i lavoratori, non solo quelli a tempo pieno. Ma in questo caso, come per l’Inps, si tiene conto dello standard del 60% della soglia mediana e non dei 9 euro l’ora…

È ovvio che, se si guarda solo a chi lavora a tempo pieno i working poor sono di meno. Ma il part time e i contratti a tempo in Italia sono elevati, soprattutto in alcuni settori come il turismo o la ristorazione. Il lavoro povero, insomma, dipende sia dai bassi salari sia dalle poche ore di lavoro. Guardare solo ai salari orari è come guardare solo una piccola parte della fotografia…… 

 L’altra proposta per ridurre il lavoro povero è rafforzare la contrattazione collettiva. La commissaria dell’Inps nel rapporto dice che quei 20mila lavoratori poveri per «ragioni salariali» sono «distribuiti tra un numero rilevante di contratti collettivi nazionali di lavoro, inclusi quelli con le platee più vaste e firmati dalle organizzazioni sindacali maggiori». Quindi non sarebbe solo un problema di contratti pirata…. Che comunque per l’Istituto, non rappresentano un allarme...I contratti collettivi nazionali di lavoro vigenti-come ricordato- sono 966.  Di questi, quelli applicati ad almeno un dipendente, sono 832.

 Ma i 28 contratti più grandi, che riguardano almeno centomila persone, coprono quasi l’ottanta per cento dei dipendenti. Se si aggiungono anche i contratti medi, che riguardano tra diecimila e centomila lavoratori, si arriva a oltre il novantacinque per cento dei dipendenti totali.In totale, scrive l’Inps, 99 contratti coinvolgono la quasi la totalità dei dipendenti. I contratti micro, invece, riguardano solo lo 0,4 per cento dei dipendenti, cioè meno di cinquecentomila persone. E oltre il novantasei per cento risulta coperto da un contratto firmato da una delle tre maggiori organizzazioni sindacali, ovvero Cgil, Cisl e Uil.  E gli altri contratti registrati?

 Le domande, che si pone l’economista Guarnero, a questo punto sono due: 1. Perché un’azienda si prende la briga di scrivere un contratto, con i costi che questo comporta, e di registrarlo al Cnel, se poi non intende utilizzarlo? 2. E perché i salari orari effettivi non riflettono quelli dei contratti collettivi? Già, perché’???

 

 

Condividi su:

Seguici su Facebook