Ho visitato Auschwitznel maggio del 2018. Ci ero andato quasi contro voglia, avevo bisogno di fare riposare mente e corpo dopo un periodo particolare della mia vita. Avevo appena compiuto trent’anni e la mia compagna, organizzatrice impeccabile, nei giorni di permanenza a Cracovia decise di inserire un tour guidato. Non fui entusiasta, ma accettai senza obiezioni, d’altronde andavo a conoscere e testare con mano quello che, negli anni in cui studiavo scienze politiche, avevo letto e studiato con la dovizia dei particolari. Dopo un’oretta di viaggio in un autobus scomodissimo e piccolo arrivammo nel parcheggio antistante il campo.
Ci accolse una guida polacca che parlava un italiano impeccabile e, dopo averci spiegato quale fosse il percorso da compiere e le relative tempistiche, ci trovammo catapultati dinanzi al cancello più famoso della storia. “Arbeitmachtfrei” (il lavoro rende liberi). Da quel momento in poi, varcata quella soglia, il mio menefreghismo si trasformò lentamente in silenzio; un silenzio che non saprei spiegare a parole, una sensazione di profondo rispetto e riverenza. In ogni angolo di quel posto, in ogni blocco, guardando il filo spinato elettrificato, cercavo di immedesimarmi nei racconti di Liliana Segre e Primo Levi, respiravo l’angoscia ed i sensi di colpa di Sami Modiano e Piero Terracina. Pensavo a zio Vittorio che, negli anni felici della mia infanzia, scherzava con me e con i miei cugini davanti casa di mia nonna mentre cercava di nascondere, nelle calde giornate di luglio, quel numero stampato sul braccio. Immaginavo i volti di Alberto Mieli, Nedo Fiano ed Elisa Springer, riflettevo sulle vite di milioni di sconosciuti nati, morti e dimenticati solo perché la brutalità decise di cancellare il loro passaggio nel mondo. Lì ho capito le parole del mio professore di Storia Contemporanea che diceva:“la vera volontà dei nazisti non era semplicemente quella di sterminare la razza ebrea ma di fare in modo che non fosse mai esistita”; non per ultimo mi emozionai davanti all’esempio enorme di padre Kolbe che prima d’allora conoscevo solo per sentito dire.
Poi vennero le lacrime, lacrime difficili da trattenere, dinanzi alle montagne di capelli, ad una piscina di pentole ed effetti personali, davanti ad una distesa infinita di scarpe ed occhiali. Da quei corridoi, qualche burocrate aveva ordinato di eliminare l’esistenza ela storia di milioni di persone. A Birkenau poi il silenzio si trasformò dapprima in vergogna, successivamente in preghiera. Birkenau è un luogo sacro, bisognerebbe togliersi le scarpe prima di entrarci, perché Birkenau è l’antidoto all’indifferenza, è il vaccino contro la banalità del male (mi perdoni Hannah Arendt per la citazione).Da quel viaggio porto gelosamente con me un senso di responsabilità, che sento come dovere in primis da Cristiano e poi come cittadino del mondo, nei confronti delle future generazioni che devono essere informate su ciò che è stato e tramandare ai posteri la testimonianza di chi ha toccato con mano l’orrore.
Per questo, leggendo dei fatti di Cogoleto, piccolo comune in provincia di Genova, provo vergogna e condanno fermamente il gesto mediocre del saluto romano in Consiglio Comunale proprio in occasione del Giorno della Memoria. Sinceramente non è una mano alzata a farmi schifo ma la volontà e la fierezza, figlia di un’ignoranza profonda, dei volti di quei consiglieri che hanno assunto su loro stessi tutto il peso di ciò che quella mano alzata rappresenta. Per questi motivi vivo la mia responsabilità come fosse un dovere cercando di rinnovare, quando mi è possibile, l’invito universalmente validoa non rimanere indifferenti. Il gelo, l’apatia, l’impassibilità uccidono ora come allora e le immagini tristi che arrivano dalla Bosnia le abbiamo tutti sotto il naso. Per fortuna però gli esempi positivi non mancano, come la lodevole iniziativa del sindaco di Stazzema, piccolo comune in provincia di Lucca vittima di un eccidio nazi-fascista del ’44, il quale si è fatto promotore di una raccolta firme per una legge che punisce la propaganda di fascismo e nazismo.
Cerchiamo di non dimenticare allora, anzi il mio invito è quello di andare a visitare quei memoriali, anche contro voglia; in fin dei conti basta semplicemente non voltare lo sguardo dall’altra.